Non sono quando non ci sei

La Pagina Uno di Tracce di ottobre, gli appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di CL. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 27 settembre 2014 (PDF e EPUB)

L’illogica allegria
Amare ancora
La strada


DAVIDE PROSPERI

Diamo il benvenuto a tutti i presenti, qui ad Assago e nelle città collegate in Italia e all’estero. In questi giorni ripensavo al valore di un gesto come questo, che di per sé può apparire ripetitivo, infatti lo facciamo ogni anno! Ma, dicevamo due anni fa, il primo scopo di ricominciare, per chi cammina, è non perdere il gusto del cammino. C’è un solo motivo per cui l’iniziare aiuta a non perdere il gusto del cammino, ed è perché nell’inizio c’è sempre il criterio di tutto. L’inizio è un dono, una predilezione, così come l’inizio della vita è un dono immeritato, è il segno più grande del rapporto con chi ci ha voluto. Per questo, ogni inizio è sempre un’occasione privilegiata per fare memoria del fatto che siamo voluti, che non siamo al mondo a caso, che c’è qualcuno, Uno, che ci vuole ora, ci vuole ancora proprio ora, e questo è il primo fattore di certezza nella vita di un uomo.
Oggi, più che mai forse nella storia, la certezza di cui l’uomo ha bisogno non è appena una comprensione intellettuale, dogmatica delle cose, ma, come la chiamava don Giussani, una conoscenza affettiva della realtà, cioè tutta appoggiata sul rapporto vivo con Ciò di cui la realtà ultimamente consiste.
Il passaggio che più mi ha aiutato quest’estate a capire meglio questo è stato un intervento all’Assemblea internazionale dei responsabili di CL, che si è svolta ai primi di settembre a La Thuile. La nostra amica Rose di Kampala ha ricordato un dialogo avuto con don Giussani, nel quale lui le disse: «Se anche ci fossi stata solo tu nell’universo, Dio sarebbe venuto a cercarti perché il tuo niente non venga perso». E lei commentava: «Per me, quando si parla della Bellezza con la B maiuscola, è lì dove il mio niente, la mia vita, ha guadagnato questa bellezza, questo valore che non dipende dal mio niente, ma dipende da questa preferenza che Dio ha avuto nei miei confronti. E dire che ora sono compiuta, che sono affettivamente compiuta, non è una cosa da inventare, ma è un fatto; che io questa mattina respiri è possibile proprio perché qualcuno mi ha voluto questa mattina e non ha paura di quello che sono, ma ha pietà, vuole che io sia». E chi la vede, vede quello che lei è, vede quello che fa e non ha dubbi sul fatto che questo sia vero, come mi raccontavano anche Monica Maggioni e Dario Curatolo (che insieme a Roberto Fontolan hanno realizzato il video sui sessant’anni del movimento, che sarà allegato a Tracce di ottobre) dopo essere andati a Kampala.
L’io rinasce in un incontro dove avviene questa scelta, questa predilezione, che è il fattore di certezza della vita, perché questa scelta è un’iniziativa dell’Essere che mi vuole. La nostra incertezza - che può essere a riguardo dei rapporti (anzi, normalmente è a riguardo dei rapporti), ma che può anche riguardare la nostra capacità di iniziativa e quindi essere un’insicurezza in una presenza o in un giudizio - nasce dal fatto che, non facendo esperienza di questo rapporto con l’Essere che mi vuole ora, si cerca di riempire il vuoto con altro, con altri rapporti che si sostituiscano ad esso, o con delle nostre iniziative.
Infatti alla Giornata d’inizio dello scorso anno siamo stati provocati proprio su questo, dal racconto dell’episodio della Maddalena - lo ricordiamo bene - che si reca al sepolcro dove spera di trovare il corpo senza vita di Gesù per venerarlo, e invece si sente «chiamare per nome» dal Signore risorto. Proprio in questo essere chiamati per nome, ci diceva Carrón, rinasce l’io e scaturisce il desiderio di comunicarLo agli altri e di prendere iniziativa sul mondo.
Il primo passo di consapevolezza della portata di questo annuncio che ci ha raggiunto si è posto quest’anno con la lettera che Carrón ha inviato a tutta la Fraternità di CL dopo l’Udienza privata con papa Francesco, in cui riassumeva la preoccupazione fondamentale del Papa: occorre concentrarsi sull’essenziale, che è l’incontro con Cristo (cfr. Lettera alla Fraternità, 16 ottobre 2013, in Tracce, n. 10/2013).
La sfida dell’essenziale è apparsa subito come fattore decisivo per continuare a costruire la presenza cristiana nel mondo. Da questo punto di vista, la pubblicazione del libro di Savorana Vita di don Giussani e le presentazioni che ne sono seguite in tutta Italia si sono dimostrate uno strumento formidabile per nuovi incontri, ben aldilà dei nostri sforzi, perché questa capacità di incontro è nell’origine del carisma. Tanto è vero che a noi è chiesto proprio di restare fedeli a questa origine, se non vogliamo perderla.
L’invito del Papa all’essenziale ci ha accompagnato, poi, nel percorso fatto per dare un giudizio sulle elezioni europee, che è culminato nell’intervento di Carrón alla Fiera di Milano (che poi è diventato la “Pagina Uno” del Tracce di maggio, «Europa 2014. È possibile un nuovo inizio?»). Si diceva, riprendendo don Giussani: «La soluzione dei problemi che la vita pone ogni giorno “non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta”». E Carrón commentava: «Questa è la grande sfida davanti alla quale si trova l’Europa. La grande emergenza educativa documenta la riduzione dell’uomo, il suo accantonamento, la mancanza di coscienza di chi sia veramente l’uomo, di quale sia la natura del suo desiderio, della sproporzione strutturale tra ciò che attende e ciò che può raggiungere con le sue forze» (Tracce, n. 5/2014, p. VI).
Questo giudizio è stato spunto di lavoro in molte nostre comunità questa estate. Certamente la testimonianza più grande di questo, che abbiamo avuto e che abbiamo davanti agli occhi ormai da settimane, è quella dei nostri fratelli cristiani che si trovano a subire la persecuzione, a soffrire e a correre il quotidiano rischio della vita per affermare la loro fede. Nella loro testimonianza vediamo che cos’è l’essenziale, che cosa è a loro essenziale per vivere in quella situazione. Abbiamo letto su Tracce l’intervista all’Arcivescovo di Mosul: «È possibile vivere ogni istante con piena speranza e piena gioia». Gli domandano: «Come ha capito che era possibile?». «Ho cominciato a vivere io per primo così. E ho iniziato a comunicare questo nelle mie omelie e negli incontri. Col passare del tempo ho notato che la gente cambiava». «Da che cosa si è accorto che i cristiani hanno cambiato atteggiamento?». «Dal modo di vivere. Sono loro che hanno iniziato a dirmi di avere bisogno di essere più attaccati alla nostra fede. Erano loro a dirmi che erano tornati a vivere dentro le tante difficoltà. Loro me lo dicevano a parole e io, dai loro occhi, capivo che era vero» (A.S. Nona, «Dai loro occhi so che vivono», intervista a cura di L. Fiore, Tracce, n. 7/2014, pp. 27-28).
Qui si capisce finalmente che cos’è la testimonianza (che non a caso è il significato originale della parola «martirio»): un giudizio di amore e di attaccamento, per cui si dà la vita, prima di tutto perché la vita cambia in forza di uno sguardo nuovo su di sé, sul proprio destino e sul destino del mondo; si dà la vita per lo sguardo che la fede introduce nella propria esistenza. Questa testimonianza ci giudica, perché mostra chiaramente che, per il giudizio sull’esperienza che si vive, si può rischiare la pelle senza essere eroi, ovunque si sia, per il semplice fatto che, senza difendere questa esperienza, la vita sarebbe meno che vivere! E questo è un risveglio per tutto il popolo cristiano, che è anche uno dei compiti della nostra amicizia: che l’io sia risvegliato, non che sia consolato, o meglio, anche questo, però non nel modo con cui noi intendiamo questo termine, come a dire: «Ma sì, dai, vedrai che domani andrà meglio». Non è questo. L’unica consolazione che noi cerchiamo è quella di essere davanti al significato della vita. Niente meno di questo ci può consolare veramente, perché per meno di questo, cioè senza questo significato, la vita è solitudine.
Invece - ci pensavo questa estate - quando nella nostra esistenza entra l’amore della vita, quando uno fa un incontro capace di risvegliare l’io, se uno è vero davanti a quello che gli è accaduto, è pronto a dare la vita per questo. Non esiterebbe a dare la vita e comincia a farlo mettendo tutto se stesso, tutte le proprie energie a disposizione per questo scopo. E inizia a sentire la vita come sacrificio, cioè come data per uno scopo grande, che non è uno scopo immaginario, ma è amare Chi ti ha amato a tal punto da salvarti dal tuo niente, come dicevamo prima. Ho cominciato a capire che tutto questo è solo un’introduzione, perché fa capire quello per cui siamo fatti; un’introduzione a scoprire che c’è di più, può esserci di più. La vita può essere addirittura più profonda di questo, uno può amare l’amore della sua vita ancora di più di questo impeto eroico. Perché per noi il sacrificio ha ancora dentro come un ultimo equivoco, cioè che noi siamo pronti a dare la vita secondo la modalità, la forma, magari anche grande, di cui c’è bisogno, come servizio che noi possiamo fare. Ma c’è un sacrificio più grande ancora, che è dare la vita accogliendo il come e il quando decide Lui. Tu magari non sei pronto, non ti senti pronto per quello che ti è chiesto in una forma diversa da quella con cui stai già dando la vita, ma ti è chiesto tutto lì. E allora capisci che l’istante - come tante volte ci siamo detti, ma cominci a scoprirlo dentro le pieghe della tua esperienza - acquista un valore infinito quando il dare la vita è nel come e nel quando l’amore della tua vita te lo chiede. È una disponibilità che si impara e che cresce solo attraverso tutti quei tuoi sì, anche piccoli, che per amore hai cominciato a dire.
Ecco, quest’estate è emerso, secondo diverse modalità e a più riprese anche tra di noi, come il cammino che stiamo facendo stia diventando il fattore che permette di «approfondire la natura del soggetto», come dicevamo prima. Ma spesso avvertiamo lo scarto tra questo impeto eroico, che sentiamo vivo, e la normalità, che invece percepiamo come una sorta di realtà “minore”, oppure tra il giudizio sulla realtà che ci viene dalla fede e la necessità di guardare chi abbiamo davanti per incontrarlo veramente e non in modo dialettico, come ci chiede il Papa. Allora ti domandiamo: che cosa rende unito l’io, per cui possiamo vivere tutto quello che ci è dato, tutte le sfide che abbiamo davanti, come pienezza e gusto del vivere?

JULIÁN CARRÓN

Che cosa rende unito l’io?
«Non sono quando non ci sei», dice una canzone di Francesco Guccini che dà il titolo a questo nostro incontro («Vorrei», parole e musica F. Guccini). Di chi possiamo dire così? Di chi possiamo dire così ora? Questa espressione mi ha colpito per due ragioni. La prima è che io mi rendo conto di che cosa è essenziale per me perché non sono quando manca, e si vede dal fatto che «resto solo coi pensieri miei», come continua la canzone di Guccini. E la seconda ragione è che quella cosa essenziale deve essere presente ora. Se non è presente ora, io non sono. Mi sembra che non ci sia un altro criterio per riconoscere l’essenziale a cui il Papa ci ha richiamato di nuovo nel Messaggio al Meeting di Rimini, se non questo: una presenza che mi fa essere; lo riconosco perché quando manca io non sono, non sono proprio. Si vede subito che non è prima di tutto un problema di coerenza, ma di appartenenza a una presenza senza la quale io non sono.
Ma che cosa ci fa essere? Essere ora, in questa situazione storica in cui ci troviamo a vivere? Niente, niente può impedire di rifare nella vita la stessa esperienza che racconta Giorgio Gaber nella canzone che abbiamo ascoltato all’inizio («L’illogica allegria», parole A. Luporini, musica G. Gaber). Posso essere «da solo», in qualsiasi posto, «lungo l’autostrada», a qualsiasi ora, «alle prime luci del mattino», addirittura sapendo che «tutto va in rovina», ma «mi può bastare un niente / forse un piccolo bagliore / un’aria già vissuta / un paesaggio [...]. // E sto bene». Basta che la realtà, qualsiasi frammento di realtà, quasi un niente, entri nell’orizzonte del nostro io attraverso una circostanza qualsiasi, per risvegliarlo e rendere possibile l’esperienza di questo bene. Un bene così sorprendente che sembra quasi un sogno, che quasi ci viene «vergogna». Ma una evidenza s’impone: non posso negare che «io sto bene / proprio ora, proprio qui / non è mica colpa mia / se mi capita così». È come se la realtà, un istante prima che possiamo difenderci da essa, prima di innalzare un muro contro di essa, riuscisse a penetrare nell’io per renderlo se stesso, «proprio ora, proprio qui». E mi trovo addosso una «illogica allegria». Infatti, sembra totalmente sproporzionato che «un niente / forse un piccolo bagliore / un’aria già vissuta», possa portare alla vita questa allegria. «Un’illogica allegria / di cui non so il motivo / non so che cosa sia», tanto è reale e allo stesso tempo misteriosa. Perché se non fosse reale, non potrebbe succedere quello che Gaber dice dopo: «È come se improvvisamente / mi fossi preso il diritto / di vivere il presente». Qualcosa entra nella vita e mi rende presente al presente, «proprio ora, proprio qui». Un niente che mi prende così tanto da rendermi presente a me stesso. Io sono tutto unito, presente, quando tu ci sei.
È difficile trovare una canzone che esprima meglio il senso del capitolo decimo de Il senso religioso. L’io, accorgendosi della presenza inesorabile della realtà, «risvegliato nel suo essere», dice don Giussani, «dalla presenza, dalla attrattiva e dallo stupore [per la realtà], [...] è reso grato, lieto» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 146) e sta bene.
Chi non desidererebbe questo ogni mattina, ogni istante del vivere? Un istante di pienezza di cui uno si sorprende, come tante volte l’abbiamo vissuto anche noi. In quell’esperienza semplicissima, elementare, a portata di mano di chiunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, in qualsiasi circostanza, lì è tutto il metodo. Una presenza che mi fa essere. Nessun mio tentativo è in grado di darmi ciò che quell’istante mi dà. Non c’è un altro criterio per riconoscere l’essenziale, se non questo. Che sia l’essenziale lo si vede perché mi fa talmente essere che, quando manca, io non sono, non sono proprio! Appena compare, sono, e sono contento, sperimento una «illogica allegria», «proprio ora, proprio qui», che mi rende capace di vivere il presente.
Quando, invece, questo metodo non prevale, «che amarezza, amore mio, / veder le cose come vedo io [non è che cambi il reale, cambia il modo di vedere le cose] [...]. // Che delusione [...] / vivere la vita con questo cuore [tante volte rattrappito] / e non volere perdere niente» («Amare ancora», parole e musica C. Chieffo), vedendo tuttavia che tutto sfugge tra le mani.
Ma cambiare è facile: «Basterebbe soltanto ritornare bambini e ricordare... / E ricordare che tutto è dato, che tutto è nuovo / e liberato». Basterebbe capire che la nostra prima attività è una passività, è questo accogliere, questo ricevere, questo riconoscere che tutto è dato. Basta un bagliore per poter dire che qualcosa ci è dato. Non occorre niente di particolarmente eccezionale. Basterebbe un piccolo bagliore perché qualsiasi cosa, anche la più piccola, documenta che c’è qualcosa d’altro. «Ecco il nostro metodo», dice Giussani nell’ultimo libro dell’Equipe, In cammino, «per chiarire il problema dell’uomo come religiosità - che è il problema più profondo e totalizzante dell’uomo -: è necessario innanzitutto rendere esperienza personale il rapporto tra l’uomo e la realtà in quanto originata» (In cammino. 1992-1998, Bur, Milano 2014, p. 316).
Tutti abbiamo avuto, in certi momenti eccezionali, un’esperienza del genere, ma ci domandiamo: come questo può diventare stabile? Come rendere esperienza personale stabile il rapporto tra l’uomo e la realtà in quanto originata? È qui che si pone il problema della strada. Infatti, senza fare una strada possiamo, anche dopo momenti eccezionali, ritornare al tran tran e tutto può diventare di nuovo piatto, squallido, ridotto. Noi apparteniamo al movimento per fare insieme questa strada, per sostenerci in questa strada. Ogni volta che ci ritroviamo, come diceva prima Davide, è per continuare la strada, per il gusto della strada, perché senza fare una strada, cioè senza una educazione, questo metodo non diventa esperienza personale, cioè non diventa mio. La realtà è lì, davanti a tutti noi, ma non è mia.
A questo punto, occorre riprendere la domanda che ci siamo dati per l’estate: «Che cosa cercate?». Cercare è il segno di uno che è in cammino. Ma ci siamo detti: non diamo per scontata la domanda «che cosa cercate?». Perché possiamo appartenere al movimento, essere qui fisicamente e non cercare più; essere qui ed essere fermi, bloccati; lo si vede perché, invece della «illogica allegria», prevale il lamento nel vivere.
È impressionante che tutte queste esperienze, che noi viviamo, sono simili a quelle di qualsiasi persona che viva un’appartenenza. Lo stesso Gaber, in un’altra canzone, Qualcuno era comunista, fa un lunghissimo elenco di tutte le ragioni per cui si poteva essere comunisti: perché uno ha «bisogno di una spinta», perché uno ha «la necessità di una morale diversa», per «un desiderio di cambiare le cose», perché ha bisogno di uno «slancio» eccetera. Che cosa cercava attraverso l’appartenenza al partito? Che cosa desiderava? Superare quel dualismo che tante volte noi ci troviamo addosso. «Era come due persone in una», dice. «Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita» («Qualcuno era comunista», G. Gaber e A. Luporini). L’appartenenza ha uno scopo: cambiare la vita, il «vivere che taglia le gambe» (C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947, p. 166).
Poi, nel tempo, dopo anni di appartenenza, arriva la drammatica domanda: «E ora?». E ora? Qualsiasi appartenenza ha bisogno - volenti o nolenti - di passare attraverso la verifica della fatica quotidiana. Quella appartenenza si è dimostrata capace di rispondere alle sfide del vivere, a quel desiderio di cambiamento? Sorprende l’onestà di Gaber nel riconoscere il risultato della verifica: «E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. / Due miserie in un corpo solo» («Qualcuno era comunista», G. Gaber e A. Luporini).
Vedete come non qualsiasi appartenenza risolva la questione della vita. E nemmeno qualsiasi modalità di vivere un’appartenenza vera risolve il dualismo. Il problema dell’unità della vita si ripropone sempre. Non ce la caviamo soltanto affermando a parole un’appartenenza, non ce la caviamo soltanto insistendo volontaristicamente su questa appartenenza. Possiamo, infatti, vivere ancora una divisione profonda in noi tra «lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana» e «il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo».
Noi, che apparteniamo alla realtà del movimento, abbiamo lo stesso problema. E come l’essere comunista ha dovuto passare attraverso la verifica della storia, anche noi facciamo la verifica della fede davanti alle sfide del quotidiano e della storia. E ora? «Nel nostro gruppo di Fraternità (ma ho sentito dire la stessa cosa anche da altri gruppi)», mi scrive uno di voi, «spesso risulta difficile realizzare quell’amicizia fraterna che permette di mettere in comune le esperienze di ciascuno, in modo che sia possibile esprimere giudizi comuni e quindi che il gruppo possa essere utile a tutti per ritrovare gli “occhi di cielo” nella propria vita. Piuttosto che ricercare un aiuto fraterno con questo obiettivo, ci limitiamo a commenti, magari di tipo intellettuale. Alla fine, però, rimane la nostra insoddisfazione e ci domandiamo cosa conviene fare, come se la soluzione fosse al di fuori di noi stessi». Come vedete, non qualsiasi modalità di vivere l’appartenenza è soddisfacente. Sostituire l’esperienza con i commenti non è utile per ritrovare gli «occhi di cielo». Ce lo aveva preannunciato don Giussani: «Una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe [...] una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, [...] dice l’opposto» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2014, p. 20). È il rischio che si corre vivendo un’appartenenza che non risponda alle esigenze del vivere.
Impressiona la lealtà con cui lo stesso Gaber, in un’altra delle sue canzoni, Il desiderio, riconosce che «non ha senso [continuare a] elencare problemi / e inventar nuovi nomi [“commenti, magari di tipo intellettuale”, come dice il nostro amico] / al nostro regredire / che non si ferma continuando a parlare. // Amore, / non è più necessario / se quello che ci manca / si chiama desiderio» («Il desiderio», G. Gaber e A. Luporini). Drammatico! Non è che fermiamo il nostro regredire con le nostre chiacchiere o le nostre discussioni, con la valanga dei nostri commenti, perché proprio questo è già il segno del nostro regredire. Se ci manca il desiderio, se ci manca quello che è il motore del vivere - perché «il desiderio», dice Gaber, «è il vero stimolo interiore / [...] è l’unico motore / che muove il mondo» -, chi ce lo ridesta? Se il nostro stare insieme non è utile per ritrovare gli «occhi di cielo» che ci consentono di volare ancora, chi ci può rendere così presenti al presente da destare tutta la nostra nostalgia?
Mi ha sempre fatto impressione pensare che il primo dono che ho ricevuto da don Giussani è stato di poter vedere che lui non aveva paura di dire le cose che tutti vivevamo, ma che erano tenute vergognosamente nascoste, perfino a noi stessi. Noi possiamo guardarle in faccia, dirle, sfidarle solo in forza di quello che abbiamo ricevuto. Per questo ciascuno di noi, dopo anni di appartenenza al movimento, deve vedere se è già nella condizione del «gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo» o se ritrova ancora in se stesso il desiderio di volare (perché il desiderio è il motore che muove tutto), con la coscienza che non soltanto non ha «perso la vita vivendo», per dirla con Eliot, ma che la sta guadagnando vivendo. Per questo la domanda non è banale: cerchiamo ancora oppure siamo fermi?

Il Signore non ci ha abbandonati
Qualsiasi sia il punto della strada in cui ci troviamo, qualsiasi sia il punto del percorso in cui ciascuno è, il momento di difficoltà che passa, il momento di gioia che vive, ancora oggi ci sentiamo dire dal Papa, in tutta la sua novità, nel Messaggio al Meeting: «Il Signore non ci ha abbandonati a noi stessi [cioè allo squallore della nostra sopravvivenza quotidiana o al nostro essere gabbiani senza più l’intenzione di volo], non si è dimenticato di noi. Nei tempi antichi ha scelto un uomo, Abramo, e lo ha messo in cammino verso la terra che gli aveva promesso. E nella pienezza dei tempi ha scelto una giovane donna, la Vergine Maria, per farsi carne e venire ad abitare in mezzo a noi. Nazareth era davvero un villaggio insignificante, una “periferia” sul piano sia politico che religioso; ma proprio là Dio ha guardato, per portare a compimento il suo disegno di misericordia e di fedeltà» (Francesco, Messaggio al Meeting per l’amicizia fra i popoli, 24-30 agosto 2014). Per noi questo luogo, attraverso cui il Mistero continua a preferirci - lo sappiamo bene -, è il nostro carisma, il luogo dove il Signore ha ancora misericordia di noi. È questo il luogo dove continua a chiamarci, attraverso ogni gesto, ogni parola, ogni tentativo.
«Caro don Julián, “non sono quando non ci sei”», mi ha scritto ieri uno di voi appena ha saputo il titolo di questa Giornata d’inizio. «Oggi mi sono scoperto proprio così. Quando Cristo è nell’orizzonte del mio sguardo, della mia giornata, io “vivo”. Vivo anche quando sono in viaggio per settimane lontano dalla mia famiglia e dai miei bimbi. Vivo nel cambio di fuso orario, di letto, nelle fatiche del lavoro. Vivo grazie alla “memoria” di Cristo che mi si fa innanzi in tanti modi - gli stessi che descrivevi tu recentemente: i Sacramenti, le Lodi, una telefonata, la Scuola di comunità, un incontro, perfino una testimonianza fatta al Meeting e vista su YouTube in differita... Perfino i gesti che un tempo pensavo bigotti, ora, mi accorgo, sono un dono di compagnia reale e che amo -. È la memoria di Cristo che illumina tutto, anche l’attimo più semplice o più faticoso. Ma se Cristo non è la mia memoria, davvero io non sono. La Sua assenza è un peso mortale, come in questa settimana: pur essendo a casa, al riparo dalle fatiche della vita, nulla basta. Queste righe per dirti quanto attendo la giornata di domani. Io davvero non sono se Tu non ci sei».
La questione è come ciascuno di noi risponde a questa modalità storica attraverso cui il Mistero ha ancora pietà del nostro niente. Non è certo una appartenenza formale quella che mantiene vivo in noi il desiderio di volare, ma è una sequela reale. L’unica possibilità di cercare ancora, di risvegliare il desiderio, è nel seguire.
«Approfitto dell’occasione per ringraziarti per gli Esercizi della Fraternità di Rimini 2014, perché in quei giorni hai fatto rinascere in me (mi hai ridato la vita, azzarderei a dire...) il desiderio su tutto. Prima di te, prima di incontrarti riducevo tutto e tutti. Riducevo il cristianesimo a un buon esempio da dare, ma poi non ce la facevo e allora ero sempre insoddisfatto e senza grazia di Dio, vagavo solo e in solitudine come un vagabondo, senza una vera meta. Avevo persino paura dell’esser solo... In quei giorni di Rimini, però, tu hai risvegliato nel mio più profondo il dono della Sua presenza e sento che niente e nessuno mi può fermare... “Sento la vita che mi scoppia dentro il cuore”, come recitava Chieffo. Grazie davvero! Dopo gli Esercizi di Rimini, tornato nella vera vita, nel quotidiano, mi sono tuffato (letteralmente tuffato...) nella ripresa degli Esercizi e qualcosa incomincia a germogliare: sono più contento, continuo nell’approfondimento e nella lettura del testo, arrivo fino in fondo e qualcosa, un lumicino di speranza incomincia a illuminare le mie tenebre. Sono un’altra persona e ne ringrazio Dio perché ora, a differenza del miracolo che attendevo da tanti anni, ora mi gusto ogni passo del cammino che devo fare, nella gioia e nel dolore».
L’incontro con quella Presenza che mi fa essere, per dirla con don Giussani, «risuscita la personalità, fa percepire o ripercepire, fa scoprire il senso della propria dignità, della dignità della propria personalità. E siccome la personalità umana è composta di intelligenza e di affettività o libertà, in quell’incontro l’intelligenza si desta in una curiosità nuova, in una volontà di verità nuova, in un desiderio di sincerità nuova, in un desiderio di conoscere com’è veramente la realtà, e l’io incomincia a fremere di un’affezione all’esistente, di un’affezione alla vita, di un’affezione a sé, di un’affezione agli altri, che prima non aveva. E così si può dire: nasce la personalità» (In cammino. 1992-1998, op. cit., pp. 184-185).
Ma che cos’è questo seguire? Un’appartenenza formale, una ripetizione verbale delle definizioni giuste e vere o, come dice Giussani, l’esperienza delle cose vere? Anche qui il Mistero ha avuto una tale pietà di noi che ci ha dato tutto il necessario per rispondere, e con la vita di don Giussani ci ha testimoniato in che cosa consiste questo seguire, perché nessuno si confonda, perché ciascuno abbia in mano lo strumento per sapere che cosa significa seguire (e quindi per decidere se seguire oppure no); ci ha lasciato l’indicazione della strada che ci consente di arrivare a rendere nostre le cose vere e di raggiungere quella unità della vita che tutti desideriamo. Perché l’alternativa è chiara: tra una appartenenza formale, associativa, organizzativa, ma che non ferma il regredire della nostra vita, o [l’appartenenza] la sequela, così come l’ha descritta don Giussani - quante volte ce lo dovremo ripetere ancora per passare dall’intenzione all’esperienza! -: «La sequela è il desiderio di rivivere [rivivere!] l’esperienza della persona che ti ha provocato [rivivere l’esperienza!] e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino» (Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, p. 64). Rivivere l’esperienza di un altro non è la ripetizione formale o la partecipazione a un’associazione. C’è di mezzo un abisso! Nel primo caso, uno non ferma il regredire, non ridesta il desiderio, non si dà le ali per volare, nell’altro caso uno è sempre più affascinato, diventa sempre più se stesso.
«Rileggendo l’assemblea agli Esercizi della Fraternità», scrive uno di voi, «sto rivivendo l’urto provocatorio e liberatorio della tua prima risposta. Io, che faccio parte dei cosiddetti “vecchi” del movimento (60 anni), sento che è un punto decisivo di ripartenza, come è stato fin dagli inizi della tua guida, una corrispondenza sfidante che mi riporta dritto ai giorni di quando, quattordicenne, scoprii il movimento come strada di salvezza per la mia vita. Di fronte a chi si lamenta mi sento un po’ come il cieco nato di fronte alle obiezioni dei farisei: “Voi dite che così non va bene, ma intanto io, seguendo, ritrovo il senso dell’incontro col movimento, la sua freschezza, la sua ironica giovinezza con un di più di maturità. Mi sembra una strada di libertà e di ripresa di consapevolezza della fede tutta nuova: dunque, dovrei cancellare tutto questo per dar spazio alle obiezioni? Ma io seguendolo ci vedo e respiro, e questo non me lo potete togliere, è un fatto”». Uno può rispondere alla domanda: «E ora?», ritrovandosi a 60 anni, dopo più di quarant’anni di appartenenza al movimento, con una freschezza, con un respiro, con una libertà e consapevolezza della fede tutta nuova, che nessuna obiezione gli può togliere. Che cosa gli ha consentito di rendere stabile questa novità nella sua vita? Seguire.
Perciò è a questo livello che si gioca costantemente la nostra vita: nella sequela o no del carisma, e il metodo lo descrive in modo sintetico una frase di don Giussani che mi ripeto spesso: «Una definizione deve formulare una conquista già avvenuta, in caso contrario risulterebbe l’imposizione di uno schema» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 73). O la definizione è una conquista già avvenuta nella propria esperienza o è l’imposizione di uno schema. Per questo la scelta è tra chi vuole seguire qualcuno che impone uno schema o chi vuole seguire qualcuno che lo aiuta a conquistare personalmente il contenuto della definizione. Aiutare la persona a realizzare questa conquista è stato il metodo seguito da Gesù. Non c’è alternativa. E se noi non lo capiamo come decisivo per noi, poi non ci rendiamo conto che è esattamente ciò che facciamo con gli altri: imponiamo degli schemi. Siccome tante volte noi ci possiamo accontentare di ripetere a noi stessi delle definizioni, dei discorsi, finiamo col pensare che basti imporre agli altri le definizioni o, peggio, bastonare gli altri con le nostre definizioni corrette. Ma come sappiamo bene per esperienza, questo non rende unita la vita, non rende mia la definizione che io so; per conquistarla occorre un’esperienza. Per questo non so quante volte ho ripetuto, da che sono qui, questa frase: «La realtà si rende evidente nell’esperienza», e ancora: «L’esperienza è il fenomeno in cui la realtà diventa trasparente e si fa conoscere» (In cammino. 1992-1998, op. cit., pp. 311, 250), una frase di Giussani “nucleare”!
Allora, che cosa vuol dire rivivere l’esperienza di un altro? Che cosa vuol dire rivivere l’esperienza di don Giussani? Cosa ci ha testimoniato e proposto come ipotesi per entrare nel reale, per essere uomini, per non perdere l’intenzione del volo, per essere uomini che non smettono di cercare, uomini a cui non venga meno il desiderio? Ascoltiamo ancora il Papa, che nel Messaggio al Meeting, ci ha invitato «a non perdere mai il contatto con la realtà, anzi, ad essere amanti della realtà. Anche questo è parte della testimonianza cristiana: in presenza di una cultura dominante che mette al primo posto l’apparenza, ciò che è superficiale e provvisorio, la sfida è scegliere e amare la realtà. Don Giussani lo ha lasciato in eredità come programma di vita, quando affermava: “L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi [cioè uomini] è vivere sempre intensamente il reale. La formula dell’itinerario al significato della realtà è quella di vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla. Non sarebbe infatti umano, cioè ragionevole, considerare l’esperienza limitatamente alla sua superficie, alla cresta della sua onda, senza scendere nel profondo del suo moto”» (Francesco, Messaggio al Meeting per l’amicizia fra i popoli, 24-30 agosto 2014). Con questo richiamo il Papa ci ridona “ora” il programma di vita che don Giussani ci ha proposto sempre! E il programma non è la ripetizione delle definizioni giuste, è l’indicazione di una strada che tutti possiamo percorrere. Per essere uomini occorre «vivere sempre intensamente il reale» (Il senso religioso, op. cit., p. 150). Ciascuno deve decidere.

Il valore delle circostanze
Ma il reale di che cosa è fatto? Di circostanze, di circostanze - come diceva prima Davide - attraverso cui il Mistero ci chiama, ci risveglia, ci viene incontro affinché noi non veniamo mai meno, non soccombiamo al nulla. Proprio per questo Giussani ci ha invitato a guardare la circostanza in un modo che ci impedisca di restare all’apparenza. Perché le circostanze sono la modalità attraverso cui il Mistero ci chiama, ci tira fuori dal nulla, ci preferisce. Per questo ci dice, sempre ne Il senso religioso: «L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto “signore” mi trascina, mi provoca al suo disegno». Non è richiesta una definizione, ma la risposta a una provocazione. E queste circostanze - don Giussani rincara la dose! - possono essere «un segno [a volte] così ottuso [la fatica del vivere, lo squallore della vita quotidiana, le situazioni drammatiche, le cose più apparentemente inumane], così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale, come è il susseguirsi delle circostanze: è come sentirsi in balia di un fiume che trascina in qua e in là». Questa è tuttavia la modalità attraverso cui il Mistero mi chiama per non farmi cadere nel nulla. «E dir “sì” a ogni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni, [è] una posizione vertiginosa» (Il senso religioso, op. cit., p. 189); per questo tante volte ci viene la paura e ci ritiriamo dalla sfida. Ma che testimonianza è la sua! «Spero che la mia vita», ci diceva don Giussani, «si sia svolta secondo quel che Dio aspettava da essa. Si può dire che si sia svolta nel segno dell’urgenza perché ogni circostanza, anzi ogni istante per la mia coscienza cristiana è stato ricerca della gloria di Cristo» («Don Giussani: “Io sono zero, Dio è tutto”», intervista a cura di D. Boffo, Avvenire, 13 ottobre 2002, p. 3).
Perché per lui «la vita coincide con la realtà in quanto ti tocca, ti chiama, ti provoca e perciò non c’è vita senza compito». La vita come ti tocca? «Ti tocca come realtà [una realtà che chiama in causa la tua libertà] e la realtà ti provoca sempre a una collaborazione, a un impegno, cioè a un compito». Amici, questo è quello che dobbiamo seguire. È attraverso questo che il Mistero ci chiama. Ma chi può pretendere da noi una sequela così? Solo Dio. Chi altro può pretendere qualcosa di simile? Solo Colui che ci chiama. Per questo la questione decisiva è capire come Dio ci chiama, perché altrimenti noi parliamo di Dio in astratto, lo buttiamo fuori dalla realtà, lo releghiamo dove noi pensiamo che sia, e in questo modo guardiamo la realtà, come dice il Papa, restando nell’apparenza, non riconosciamo di essere chiamati a rispondere a Lui attraverso le circostanze. Ma don Giussani ci ha educato a riconoscerle e a guardarle per quello che sono: la modalità con cui Dio ci chiama, che può essere qualcosa di assolutamente banale (un piccolo bagliore) o una circostanza cupa, a volte non trasparente, ma è come se attraverso queste cose il Mistero ci dicesse: «Guarda che questa modalità che tu non capisci, che ti sembra così cupa, è il segno attraverso cui Io che faccio tutte le cose costruisco la tua vita, ti faccio maturare, ti rendo te stesso, ti rendo unito, ridesto il tuo desiderio, ti rendo presente al presente». Che impressione quando uno accoglie questo disegno!
«Carissimo don Carrón, ti scrivo per ringraziarti per quello che hai proposto agli Esercizi e il lavoro sul “vivere le circostanze” con cui ci hai sfidato questa estate. Ho 27 anni, mi sono sposata due anni fa e sono diventata mamma di una bimba di 9 mesi (nata con la sindrome di Down); sono un medico alla ricerca di lavoro. Una situazione non proprio ordinaria. Ti scrivo, appunto, per ringraziarti perché mi sono resa conto in questi mesi di quanto bisogno ho di seguire. Non basta un fatto eccezionale (nel mio caso la quotidianità è, in qualche modo, eccezionale; grazie alla presenza misteriosa di mia figlia), nemmeno tutta quella buona predisposizione cattolica che si ha davanti alla vita. Sono cristiana, del movimento praticamente da sempre, eppure tutto questo non basta a vivere davvero, occorre oggi un senso per vivere ciò che c’è. In questi mesi seguire il movimento, non solo formalmente, ma lasciandosi educare, spesso anche duramente, ha introdotto nelle mie giornate la coscienza che ciò che mi è dato oggi è la compagnia più utile per me ora, la mia strada per conoscere ciò che riempie davvero il cuore: Gesù. Lui si è imposto come compagnia fedele, come presenza amorosa necessaria; cioè, non che avessi bisogno di qualcuno che mi dicesse che mia figlia ha un valore infinito, che la sua vita è grande (questo è evidente nel rapporto quotidiano con lei, dovresti vederla!); ma la differenza sta nel gusto, che viene dalla coscienza che il Signore mi chiama qui e non dove pensavo io. È come se l’oggi, quindi le piccole cose, la casa, mio marito, mia figlia mi fossero stati “restituiti!”. Questo riempie davvero il cuore di gratitudine. Davvero non avrei mai creduto che vivere la realtà accendesse il mio desiderio di felicità, invece in qualche modo di colmarlo o sistemarlo. Grazie ancora di cuore per la guida che sei a questo cammino umano, umanissimo». Quello che le è dato oggi è la compagnia più utile per lei ora. Lei non aveva bisogno che qualcuno le dicesse che sua figlia aveva un valore infinito (una definizione, appunto); per questa giovane madre «la differenza sta nel gusto, che viene dalla coscienza che il Signore mi chiama qui e non dove pensavo io». E così le viene restituito tutto: cose, casa, marito, figlia.
Ma a volte noi non stiamo a questo metodo; uno non accetta di riconoscerlo, e allora si ritira. Davanti alle sfide delle circostanze attuali, che tante volte ci sconvolgono, qual è la tentazione? Soccombere alla paura, pensando di raggiungere l’unità, come ci diceva questa estate il professore Eugenio Mazzarella, essendo «esonerati dai rischi». Non crediamo che la circostanza ci è data dal Mistero, dal Signore del tempo e della storia, per riconquistare la verità, perché non c’è un altro modo di riconquistare la verità che già sappiamo, se non attraverso la libertà, attraverso il coinvolgimento della mia persona nella Verità che mi chiama attraverso le circostanze.
Come ci ricorda il cardinale Scola nell’intervista a Tracce, a volte prevale «una visione statica dell’uomo: si pensa ancora, con un certo intellettualismo etico, che l’unico problema sia imparare la dottrina giusta per poi applicarla alla vita: “L’autentica dottrina, una volta proclamata, vincerà”. Questa posizione, però, non tiene conto di un dato: per il fatto stesso di essere “gettato” nella vita, l’uomo si trova a fare un’esperienza da cui nascono domande, interrogativi. La dottrina, che evidentemente per il cristiano si basa sull’esperienza originaria della sequela di Cristo proposta autorevolmente dal Magistero, deve essere riscoperta come risposta organica ai “perché?” che nascono dall’esperienza. Altrimenti non basta» («Le conseguenze del bell’amore», intervista a cura di D. Perillo, Tracce, n. 8/2014, p. 31).
Per questo don Giussani ci incalza sottolineando che, dopo l’incontro, «la realtà non va archiviata perché noi già sappiamo [e] abbiamo tutto [per il semplice fatto di averLo incontrato]. Abbiamo tutto, ma che cosa sia questo tutto noi lo comprendiamo [solo] [...] nell’incontro con le circostanze, le persone, con gli avvenimenti», come ci ha testimoniato quella mamma. O noi capiamo questo oppure tutte le sfide storiche che dobbiamo affrontare non c’entreranno più niente con il nostro cammino, addirittura diventeranno un ostacolo. Don Giussani, invece, le ritiene preziose per la nostra strada. Noi abbiamo tutto, ma non possiamo capire che cos’è questo tutto soltanto ripetendo le definizioni, soltanto aderendo formalmente, ma nell’incontro con le circostanze. Se noi non capiamo che tutto il complesso delle circostanze ci è dato per la nostra maturazione, per riconquistare la nostra unità, noi ci ritiriamo da questa verifica. «Non bisogna», insiste don Giussani, «archiviare niente, [...] né censurare, dimenticare, rinnegare niente. [Perché] cosa voglia dire il tutto che abbiamo, la verità che abbiamo, [...] che cosa significhi questo “tutto” lo capiamo [...] affrontando le cose, perciò attraverso il fatto degli incontri e degli avvenimenti, attraverso l’incontro [...] e negli avvenimenti» (L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 55).

In Sua compagnia, sicuri in qualunque luogo
Solo così possiamo raggiungere quella certezza che ci consente di entrare in tutto, in qualsiasi periferia, e invece di lasciarci definire dalla paura essere determinati dalla certezza che Lui genera in noi, perché, come ci dice ancora il Papa nel Messaggio al Meeting (dobbiamo riprenderlo tutto, questo messaggio!), «il cristiano [che vive come abbiamo cercato di descrivere] non ha paura di decentrarsi, di andare verso le periferie, perché ha il suo centro in Gesù Cristo. Egli ci libera dalla paura [non perché diciamo formalmente “Cristo”, tutti sappiamo bene che soltanto questo non basta, che non basta un tipo di appartenenza formale per vincere lo squallore, per vincere la paura, ma occorre un’esperienza di Cristo; così] in sua compagnia possiamo avanzare sicuri in qualunque luogo, anche attraverso i momenti bui della vita, sapendo che, dovunque andiamo, sempre il Signore ci precede con la sua grazia, e la nostra gioia è condividere con gli altri la buona notizia che Lui è con noi. I discepoli di Gesù, dopo aver compiuto una missione, ritornarono entusiasti per i successi ottenuti. Ma Gesù disse loro: “Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20-21). Non siamo noi a salvare il mondo, è solo Dio che lo salva» (Francesco, Messaggio al Meeting per l’amicizia fra i popoli, 24-30 agosto 2014).
Solo chi è certo dell’essenziale potrà essere disponibile a cercare forme e modi per comunicare la verità incontrata, altrimenti l’incomunicabilità con gli altri sarà assoluta. «Un mondo in così rapida trasformazione», continua il Papa, «chiede ai cristiani di essere disponibili a cercare forme o modi per comunicare con un linguaggio comprensibile la perenne novità del Cristianesimo [don Giussani è un esempio di questa rivoluzione nei modi e nelle forme]. Anche in questo occorre essere realisti. “Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada” (Evangelii Gaudium, 46)» (ivi).
«Quante persone», dice sempre il Papa, «nelle tante periferie esistenziali dei nostri giorni, sono “stanche e sfinite” e attendono la Chiesa, attendono noi! Come poterle raggiungere? Come condividere con loro l’esperienza della fede, l’amore di Dio, l’incontro con Gesù? È questa la responsabilità delle nostre comunità [...]. Davanti a tante richieste di uomini e donne, corriamo il rischio di spaventarci e di ripiegarci su noi stessi in atteggiamento di paura e difesa. E da lì nasce la tentazione della sufficienza e del clericalismo, quel codificare la fede in regole e istruzioni, come facevano gli scribi, i farisei e i dottori della legge del tempo di Gesù. Avremo tutto chiaro, tutto ordinato, ma il popolo credente e in ricerca continuerà ad avere fame e sete di Dio» (Francesco, Ai partecipanti all’Incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, 19 settembre 2014).
Per rispondere a queste sfide il Papa ci rimanda alla modalità con cui Gesù stesso le ha affrontate: senza spaventarsi o ripiegarsi nella paura, Gesù va incontro a coloro che sono “stanchi e sfiniti”. Esempio noto di questo genere di persone sono i pubblicani, odiati da tutti per la loro palese incoerenza. Il rapporto di Gesù con loro porta i farisei e gli scribi a mormorare contro di Lui: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ma le loro obiezioni non fermano Gesù. Anzi, Lui difende ancora di più il suo modo di rapportarsi ai pubblicani con parabole come quella del figliol prodigo (Lc 15,11-32), che mette in evidenza quanto Lui fosse consapevole del rischio che correva con il Suo modo di procedere. Il figliol prodigo rimarrà per sempre come l’immagine di chi, avendo ricevuto tutto (padre, casa, beni eccetera), non può resistere al fascino dell’autonomia; tutto gli sembra un ostacolo alla sua ansia di libertà senza limiti, come vediamo in noi e tante volte nei nostri concittadini. Tutti possiamo immaginare il fremito del padre davanti alla libertà del figlio. Malgrado tutto, il padre corre il rischio della libertà del figlio. Che amore alla libertà del figlio, perché potesse riconquistare attraverso la propria esperienza quello che già sapeva!
E accade l’imprevisto. Proprio nel momento in cui il figlio è più smarrito, quando per sopravvivere si abbassa a mangiare carrube con i porci, non è ancora tutto perduto. Perché? Perché proprio nel momento in cui uno meno se lo aspetterebbe, il figlio «ritorna in sé». Il figlio si ritrova dentro qualcosa che non si è smarrito. Proprio nel momento apparentemente più oscuro e confuso, emerge il suo cuore con le sue evidenze ed esigenze costitutive. Tutti i suoi sbagli non possono cancellare la memoria della sua casa, di suo padre e del tenore di vita dei suoi salariati. E questo gli consente di giudicare, di fare un velocissimo paragone tra la situazione precedente e quella attuale: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!». E così può recuperare, dal di dentro della sua esperienza, quello che pensava di sapere. Si rende conto delle dimensioni del suo bisogno e del bene di avere un padre. Finalmente capisce dove si trova la libertà, scopre che la libertà è un legame, una casa, un padre; riconosce il bene che significa avere un padre che lo abbraccia di nuovo e lo riaccoglie come figlio. Il padre, a sua volta, è felice di vedere come la sua pazienza nei confronti della libertà di suo figlio gli ha consentito di ritrovarlo come figlio, ed è grato e lieto di avere un figlio contento di essere suo figlio. Allo stesso tempo rimarrà per sempre davanti a noi il fatto che un rimanere formale nella casa, come quello dell’altro figlio, non significa necessariamente avere capito che cosa voglia dire essere figlio e avere un padre; si può, infatti, restare a casa, ma lamentandosi.
Proprio per difendere il suo modo di procedere con coloro che vivono nella periferia dell’umano, perché la loro ansiosa, impaziente e inquieta sete di libertà li ha portati così lontano, Gesù mette davanti ai suoi denigratori questo rapporto del padre con il figliol prodigo. Trattando così i pubblicani, che hanno preferito abbandonare la casa del Padre perché stava loro troppo stretta, è come se Gesù dicesse ai farisei: «Io faccio così, corro il rischio e li aspetto perché mio Padre fa così». È questa certezza del rapporto di Gesù con il Padre - «Io non sono solo» - che Gli è essenziale per vivere e per rischiare fino in fondo con quelli che si sono allontanati, fino a permettere loro di scoprire dal di dentro della loro esperienza chi sono e a Chi appartengono.
In questo momento particolarmente sfidante, caratterizzato - come abbiamo detto parlando dell’Europa - dal crollo delle evidenze storiche, attraverso un travaglio micidiale, attraverso tante sofferenze (pensiamo ancora all’episodio del figliol prodigo), davanti a tanti nostri contemporanei che si ostinano a percorrere le vie più strane - così come può accadere anche noi di cercare la soddisfazione inseguendo le nostre immaginazioni -, possiamo capire come il Mistero possa correre il rischio della libertà per fare scoprire a loro e a ciascuno di noi chi siamo veramente e a che cosa siamo chiamati. A che cosa si affida il Mistero? Al nostro cuore e alla Sua presenza, che è diventata carne per esserci vicini e poter ridestare in noi il desiderio di tornare a casa, perché proprio attraverso ogni travaglio possiamo scoprire che cosa sia la libertà.
Noi non siamo stati scelti per tirarci fuori dalla realtà, ma per essere ancor più dentro le situazioni. Siamo stati scelti per accompagnare chiunque «è rimasto al bordo della strada», ci dice il Papa. E padre Antonio Spadaro, parlando al Meeting, ha utilizzato l’immagine della fiaccola: «La fiaccola [...] cammina lì dove sono gli uomini, illumina quella porzione di umanità nella quale si trova. Se l’umanità va verso il baratro, la fiaccola va verso il baratro [non perché voglia spingere verso di esso], cioè accompagna gli uomini nei loro processi. Ovviamente, in questo modo magari riesce a strapparli al baratro, facendoglielo vedere. Se tu non sei in cammino con gli uomini, se stai fermo e dici: “La luce è qui, noi siamo la salvezza, venite e chi non vuol venire si ammazzi pure”, ecco, questa immagine di Chiesa non è “l’ospedale da campo” di cui parla Francesco. Bisogna accompagnare i processi culturali e sociali, per quanto ambigui, difficili e complessi possano essere» (A. Spadaro in Le periferie dell’umano, a cura di E. Belloni e A. Savorana, in corso di pubblicazione con la Bur).
Perciò riconoscere di essere stati scelti, insistere sull’essenziale, non è perché tutto finisca lì, ma perché da qui inizi tutto. Sempre nel Messaggio al Meeting, papa Francesco invita «a questo ritorno all’essenziale, che è il Vangelo di Gesù Cristo», perché «i cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione” (Evangelii Gaudium, 14), cioè “attraverso una testimonianza personale, un racconto, un gesto, o la forma che lo stesso Spirito Santo può suscitare in una circostanza concreta” (ibid., 128)» (Francesco, Messaggio al Meeting per l’amicizia fra i popoli, 24-30 agosto 2014).
Questo è il nostro compito. Per questo siamo stati scelti, come ci ricorda ancora don Giussani: «C’era il nulla, il nulla di tutto, ma, più puntualmente, il nulla di te e di me: la parola “elezione” segna il limite, la soglia, tra il nulla e l’essere. L’essere fiorisce, dal nulla, come scelta, come elezione [noi siamo stati tirati fuori dal nulla perché siamo stati scelti]: non esiste altra condizione proponibile, non esiste altra pensabile premessa [come diceva Davide all’inizio]. Questa scelta e questa elezione sono la pura libertà del Mistero di Dio in azione, la libertà assoluta del Mistero che si esprime» (Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 63).
Continua don Giussani: «Il Mistero di Dio, che si esprime come libertà nella scelta o nella elezione, vibra, può e deve vibrare, con timore e tremore, con umiltà assoluta, dentro la preferenza umana, perché la preferenza umana è l’ombra della scelta della libertà di Dio» (ibidem, pp. 63-64). Dio ci chiama perché noi Lo comunichiamo a tutti. Dio ha avuto questa preferenza per noi, perché attraverso di noi il Suo amore arrivi a tutti. Come dice san Paolo: Dio mi ha scelto per poter mostrare nella mia persona quello che voleva dare a tutti. Perciò in questa preferenza umana di Dio vibra tutta la Sua passione per ogni uomo. E per questo la prima nostra preferenza è nei confronti di chi mi ha scelto. Ecco perché tante volte ripetiamo la parola «gratitudine». Riconoscere la grande preferenza di Cristo per noi è riconoscere con gratitudine questo luogo che costantemente mi viene donato. Ma per poter capire fino in fondo tutto il compito che è contenuto in questa preferenza, bisogna anzitutto riconoscere che la nostra prima risposta è a Colui che ci preferisce così, è renderci conto di essere stati scelti da Lui. Solo allora capisco che la «scelta della libertà di Dio, che elegge Uno, nascosto come un piccolo fiore invisibile nel seno della Madonna, è per tutto il mondo [per questo non c’è Chiesa, dice il Papa, se non in uscita. La Presenza che portiamo è per tutto il mondo: per tutto il mondo, non per l’ambito che noi decidiamo, scegliendo chi è adeguato o meno]. Perciò non esiste nell’uomo riverbero umile, pieno di timore e tremore, di preferenza, se non per l’amore al mondo, per il beneficio da portare al mondo, per passione al mondo. Ed è mirabile questo paradosso supremo della preferenza che sceglie ed elegge per abbracciare il mondo, per trascinare con sé il mondo. La scelta e l’elezione, nel realizzarsi della preferenza, coincidono con un amore che si fissa su ogni realtà vivente, su ogni uomo vivente, su ogni carne» (ibidem, p. 64). La preferenza del Mistero ci consente di guardare tutto, anche la situazione più drammatica, con uno «sguardo redento», come ha detto padre Pizzaballa al Meeting (cfr. Le periferie dell’umano, op. cit.).
Ma chi può dire questo? Chi può preferire così? Chi può amare così? Chi può amare così ogni carne? Io posso preferire solo se mi rendo conto che sono stato e sono preferito, se vivo di questa preferenza, se questa preferenza mi rende così traboccante che diventa contagiosa, mi rende capace di preferire tutti, di trascinare altri. È così che possiamo rischiare, perché chi non rischia non potrà riconquistare tutto questo oggi e raggiungere quella unità del vivere che tutti desideriamo.