Raphael Minassian durante l'incontro al CmC.

«Figli di una speranza che nasce dal martirio»

Raphael Minassian, Arcivescovo armeno, rilegge il genocidio attraverso le vicende della propria famiglia. La storia di un popolo che, da Ataturk fino ai nostri giorni, è rimasto radicato nella fede. Con un forte bisogno di «riconciliazione»
Giacomo Pizzi

Un applauso spontaneo, caloroso. Ancora prima di iniziare. Così giovedì 14 maggio, le persone presenti nella sala del Centro Culturale di Milano, in via Zebedia 2, hanno accolto monsignor Raphael Minassian, l’arcivescovo dei cattolici armeni in Europa Orientale, che ha offerto una testimonianza, a cento anni di distanza, sul genocidio armeno in un incontro dal titolo: "Identità, testimonianza, martirio: cosa significa essere un popolo". Un tema caldo, soprattutto dopo il messaggio lanciato da papa Francesco che ha provocato reazioni polemiche da parte del Governo turco. A coordinare l’incontro, Martino Diez, direttore scientifico della Fondazione Oasis.

Minassian è sacerdote dal 1973: nato a Betlemme, ha sempre vissuto altrove, come tanti armeni costretti all’esodo. Ordinato a Beirut, ha svolto la sua missione in Libano, negli Stati Uniti e in Vaticano. Nel 2005 è stato nominato Esarca per Gerusalemme e Amman. Quindi, dal 2011, è Ordinario per l’Europa Orientale, Armenia compresa.

«Per un armeno è difficile parlare del genocidio», esordisce l’Arcivescovo: «In tutte le famiglie c’è stata almeno una vittima. Nella mia i nonni, con i miei genitori entrambi orfani». Un fatto molto importante, dice, che ha inciso anche sulla sua vocazione. «Mio padre era stato salvato da una missionaria protestante. Passando da un orfanotrofio all’altro, era finito in un centro salesiano vicino a Torino». Voleva diventare sacerdote, ma prima di arrivare in Armenia, dove avrebbe dovuto essere ordinato, «un missionario lo ha fermato al confine siro-turco. Qui, l’incontro con suo fratello maggiore che lo frena sulla sua decisione: "Tu non devi farti sacerdote. Devi rifondare la famiglia"». Fu in quel frangente che gli presentarono una giovane donna. «In Armenia, negli anni Quaranta, le ragazze si sposavano a 14 anni», ha spiegato monsignor Minassian, «Quella ragazza, che poi sarebbe diventata mia madre. E aveva già 16 anni…». Decisero di sposarsi, ma il padre, anche se la madre di Minassian allora era contraria, pose come condizione che il primo figlio, maschio o femmina, si sarebbe consacrato: «Lo fece per giustificare la sua coscienza salesiana», scherza l’Arcivescovo: «E mia madre, pur di sposarsi, dovette accettare la condizione».

Così Raphael Minassian è entrato in seminario a undici anni. E ha conosciuto il resto dei suoi fratelli e sorelle solo molti anni dopo. «Il Papa dice che ricordare queste vittime è importante», lo incalza Martino Diez, citando Francesco: «Laddove non sussiste la memoria, significa che il male tiene ancora aperta la ferita. Nascondere il male, significa lasciare che la ferita continui a sanguinare senza medicarla». Manissian risponde: «La ferita c’è. Per un armeno è difficile dimenticare la fantasia di violenza applicata contro il nostro popolo». E chiarisce cosa voglia dire con "fantasia" raccontando di madri in cinta a cui è stata aperta la pancia per decapitare il figlio in grembo. «Che piacere c’è in questo?», si chiede, «Che piacere c’è nel prendere il clero e sottoporlo alla pubblica umiliazione, nei momenti più difficili?». Ma se è vero che ogni volta che gli armeni fanno memoria vengono in mente tutti questi episodi, il motivo per cui è importante ricordare è molto più grande. «Mio nonno e mia nonna hanno dato la vita per la fede cristiana», afferma: «Io sono stato benedetto dal sangue dei martiri per continuare a vivere la mia fede. Questa memoria ci riconferma nella fede».

Tanto che, ribadisce, «io ho visto e vissuto la fede cristiana in molti luoghi. Ma ho trovato una fede molto più profonda e radicata nel posto dove sono da quattro anni. Più che negli Stati Uniti o in Europa». Il genocidio è «una testimonianza continua». Anche perché «il Papa ci ricorda una parola importante: “riconciliazione”. Dobbiamo riconciliarci soprattutto con noi stessi. Perché nessuno è puro. Perfino i cristiani commettono un genocidio permettendo l’aborto… Ognuno ha le sue zone d’ombra. E dobbiamo sempre riconciliarci con noi stessi. Cioè con Dio».

A metà incontro viene proiettato un intervento video della scrittrice armena Antonia Arlsan (guarda il video). Ripercorre la storia del genocidio. E parla soprattutto degli armeni che, fino a oggi, non si conoscevano: quelli costretti a convertirsi all’islam. Che «si nascondevano perché si consideravano inferiori. Eppure hanno mantenuto alcuni riti cristiani. Non hanno mai davvero abbandonato la loro fede». E ora iniziano a testimoniarlo con orgoglio.

Diez si rivolge nuovamente all’Arcivescovo, mettendo sul piatto il rapporto tra le Nazioni europee, il Governo turco e il genocidio. «Gli europei avevano già condannato il genocidio nel 1915», risponde Minassian. Fu dimenticato poi, per varie ragioni. Così come il fatto che Ataturk, il fondatore della Repubblica di Turchia, aveva già denunciato i fautori del massacro. Oggi la Turchia si rifiuta di riconoscersi responsabile. «In politica non c’è morale», commenta Raphael Minassian: «Ci sono gli interessi. E finché non diventerà interesse del Governo assumersi la responsabilità delle violenze per un qualche altro fine, perché magari potrebbe servire riconoscerlo, questo non accadrà». Gli armeni non nutrono odio, ma aspettano il giorno in cui questo avverrà. Intanto, conclude, «sono contenti di vivere in Armenia. Anche se è difficile». Figli non del genocidio, ma di una speranza che nasce dal martirio.